Mi Ricordo…

Negli anni diverse persone mi hanno raccontato storie sul Profumo di cui sono state protagoniste: a volte erano compagni di viaggio che poi non ho più incontrato, altre volte personalità del mondo dello spettacolo e dell’imprenditoria. Talvolta i ricordi erano frammentari, sbiaditi, io ho cercato di ricomporli per offrire al lettore un racconto che lo incuriosisse e nello stesso tempo lo appassionasse a un tema divenuto, grazie al Museo del Profumo, caro a molti.

Giorgio Dalla Villa

Un Profumo Sconosciuto

Il giorno che Nunzia e io ci siamo sposati gli asini volavano. Mia suocera me lo diceva sempre: “Voi vi sposerete quando gli asini volano”. Da quanto tempo fossimo fidanzati avevamo perso il conto, eravamo bambini quando ci eravamo ‘promessi’ per gioco. Io l’avevo vista crescere, i suoi seni formarsi e i suoi fianchi modellarsi. Era la ragazza più bella del paese, anzi del mondo, e ci volevamo tanto bene. Non che ci mancasse il desiderio di mettere su famiglia, ma per sposarsi bisogna almeno avere un letto dove dormire, e noi eravamo così poveri che oggi sembra impossibile siano esistiti tempi tanto duri.

Il prete diceva “Quando la domenica venite nella Casa del Signore mettetevi almeno le scarpe”, ma le scarpe si consumano, e noi le tenevamo per l’inverno. In campagna si andava a piedi nudi oppure si stava in piazza ad aspettare il ‘caporale’ che distribuiva il lavoro, quando c’era. Lei passava per andare a prendere l’acqua alla fonte, mi sorrideva e il sole brillava ancora di più. Il sabato andavo a casa sua a trovarla e stavamo a parlare in cucina con sua madre che brontolava perché la figlia tanto bella e richiesta -anche dai signori- si era innamorata di me che non avevo alcun mestiere per mantenerla.

“Anch’io diventerò un signore”, dicevo, e Nunzia sorrideva con gli occhi che le brillavano annuendo con la testa.

Un giorno, erano i primi di agosto, Domenico tornò al paese. Fu un avvenimento, perché arrivò con una Fiat 600 tutta polverosa. Domenico era andato via dal paese due anni prima, “…al Nord, dove c’è lavoro”, e scriveva alla madre una volta ogni quindici giorni. La donna si faceva leggere le lettere dal prete, poi tornava a casa tenendosi stretta la lettera al petto.

“Mio figlio lavora in fabbrica”, diceva, “e ha il rasoio elettrico per farsi la barba.”

Nessuno sapeva com’era fatto il rasoio elettrico, ma al Nord poteva accadere di tutto.

Domenico nel pomeriggio venne al Salone per farsi ritoccare i capelli. Indossava la camicia bianca e portava i gemelli d’oro ai polsini. Mentre, accomodato sulla poltrona del barbiere con Vincenzo che gli girava intorno sforbiciando, parlava con modi da persona che aveva girato il mondo, noi eravamo lì ad ascoltarlo, e chi non poteva entrare nel negozio se ne stava sulla porta allungando il collo per sentire. Si lamentò delle strade polverose che gli avevano sporcato l’automobile -cose che al Nord non succedevano-, raccontò del lavoro in fabbrica, delle otto ore con indosso una tuta blu che sembrava un capo di sartoria. Neanche una macchia doveva insudiciarla, altrimenti sarebbe andato subito al suo armadietto per cambiarla, non come alcuni di noi che avevano pezze al ginocchio di colore diverso dalle brache.

“Com’è il rasoio elettrico?” gli chiese qualcuno.

“Sciocchezze”, rispose con noncuranza Domenico, “la lavatrice elettrica, questo è importante per un uomo che vive solo. Lava da sé la biancheria,” strizzò l’occhio con fare complice, “…poi si trova sempre chi è pronta a stirarla.”

Domenico viveva in un grande palazzo condominiale che la fabbrica del Nord aveva costruito per i suoi operai. Un appartamento con i servizi in casa, l’acqua calda e una vasca per fare il bagno. Lui l’appartamento lo riscattava un tanto al mese. “Poche lire che mi vengono trattenute dalla busta paga, e un giorno l’appartamento sarà mio.” Così venimmo anche a sapere che ogni mese Domenico prendeva la paga. Dodici paghe all’anno, anzi una in più: la tredicesima.

“Il rasoio elettrico com’è?” continuò a chiedere qualcuno. Ma lui era preso nel racconto delle meraviglie che si trovavano al Nord. Storie e avventure che ci facevano sgranare gli occhi per la meraviglia.

Quando Domenico se ne andò, dopo un paio di settimane, io avevo preso la mia decisione e ai primi giorni di settembre partivo per il nord con un treno che a ogni stazione si riempiva sempre di più: gente come me, giovani e meno giovani, con mogli e figlioletti al seguito. Tutti erano pronti a lottare per conquistarsi una vita lontano dalle privazioni.

Io che avevo fatto il bracciante senza arte né parte divenni un muratore. Prima garzone, poi operaio, poi cottimista. Lì non c’erano orari che tenessero: più muri innalzavo, più soldi prendevo. Cominciavo all’alba e terminavo al tramonto, stordito dalla stanchezza, ma con il pensiero fisso a Nunzia e al nostro matrimonio. I ragazzi che venivano dal sud ora mi chiamavano ‘maestro’, sapevo lavorare di staggia e di cazzuola, avevo un mestiere, ero qualcuno.

Poi un giorno scrissi a Nunzia. “Prepara le carte, torno per sposarti. Ho la casa, c’è la lavatrice elettrica e il frigorifero”.

Al paese tornai con la mia Millecento grigia durante le ferie di agosto e Nunzia era più bella di quando l’avevo lasciata. Il paese era quasi vuoto, c’erano solo vecchi e bambini. Tutti quelli che potevano lavorare erano già partiti per il nord e al nostro matrimonio non venne molta gente, ma fu lo stesso come avevamo sempre sognato e finalmente anche mia suocera era orgogliosa di me. Disse che per la nostra prima notte ci aveva preparato il letto grande con le lenzuola del corredo e che lei sarebbe andata a dormire dalla sorella.

Quando fummo soli ci sentimmo impacciati. La lontananza ci aveva fatto perdere confidenza e eravamo troppo imbarazzati per abbracciarci. L’avevamo desiderato da sempre e ora stavamo lì seduti sulla sponda del grande letto senza guardarci. Chi avrebbe dovuto per primo allungare una mano? D’un tratto Nunzia si alzò e disse che andava a togliersi il vestito da sposa. Anch’io dovevo spogliarmi e m’impigliai con i bottoni della camicia, la cinghia dei pantaloni, i calzini. Poi Nunzia rientrò nella camera e si avvicinò. Fu come se entrasse la brezza che accompagna il tramonto quando i profumi si fanno intensi, l’odore dell’acqua che sgorga dalla fonte e batte sulle rocce, il profumo dei campi nei pomeriggi d’estate e quello delle zagare sotto il cielo stellato di primavera, tutto questo invadeva la stanza e si congiungeva intimamente alla bellezza della mia sposa. La guardavo incantato e aspiravo profondamente ogni particella odorosa che stillava dalla sua pelle. Lei doveva avere notato il mio incantamento perché rise. Tolse da dietro la schiena il pugno chiuso e mi mostrò una piccola boccetta nel palmo della mano.

“E’ un profumo” disse, “il regalo di nozze della mia amica”.

D’un tratto tutte le timidezze e gli imbarazzi scomparvero. Rapiti in quell’incanto le nostre mani si mossero con naturalezza e per la prima volta ci baciammo e ci stringemmo.

Eravamo ancora svegli all’alba e Nunzia non finiva di inumidire un polpastrello e passare il profumo nelle pieghe del braccio, dietro le orecchie, sui polsi.

Due giorni dopo partivamo per il nord e fu solo a metà del viaggio che Nunzia mandò un piccolo strillo.

“Il profumo, ho dimenticato il mio profumo!”

Certo non ci fu bisogno di altro profumo per le nostri notti, ma quella piccola bottiglia di essenza, dopo tanti anni, è ancora nei nostri cuori e l’aroma è rimasto nelle nostre narici.

Profumi ne ho regalati tanti a Nunzia e così hanno fatto i nostri tre figli a ogni anniversario di matrimonio e ogni volta Nunzia ha scosso il capo: “Non è quello”.

Ecco la nostra storia. Ora sono un imprenditore di successo e posso comperare alla mia amata tutti i profumi del mondo, ma quell’essenza della nostra prima meravigliosa notte di nozze, una fragranza di Marca italiana che non aveva la pretesa di confrontarsi con quelle francesi, acquistata nella bottega di un paesino del sud dove si vendeva di tutto, è ancora la più desiderata.

PAGLIERI

Frequentavo allora l’ultimo anno delle elementari e nel nostro quartiere circolava una sola auto: una Topolino. Il proprietario trafficava in non so che, per cui era sempre via. Quando tornava a casa parcheggiava l’automobile sempre al solito posto sotto la terrazza. Il casermone in cui io e gli altri ragazzi abitavamo aveva sul tetto una grande terrazza, un luogo dove d’estate andavamo a giocare a carte, all’ombra del comignolo della centrale termica. Dal parapetto ci sporgevamo per sputare in testa ai passanti e una volta a qualcuno di noi cadde un oggetto pesante che trapassò il tettuccio in tela della Topolino. Il proprietario per diversi giorni indagò sul misfatto minacciando denunce a destra e a manca. Era convinto che fosse stato lo sgarbo di qualcuno. Il traffico che vedevamo dall’alto consisteva in biciclette cariche di operai che si affollavano sulla strada la mattina presto e la sera alla chiusura delle fabbriche, e in qualche Lambretta che passava scoppiettando.

Nelle strade laterali noi giocavamo alla “campana”, disegnandola con un gesso sull’asfalto, alla “cavallina” allo “spassegin” o ci mettevamo seduti in cerchio per il “sette e mezzo” a carte.

Avevamo due miti: il portiere del Milan Buffon (che poi sposò Edi Campagnoli, valletta di Lascia o Raddoppia) e Mariella. Mariella stava al 16/B, di fronte al nostro casermone. Aveva quattordici anni, tre o quattro più di noi, e nonostante i nostri ormoni russassero ancora della grossa, eravamo tutti innamorati di lei. Dovevano essere i capelli lunghi, o lo sguardo, o un contagio collettivo, fatto sta che ogni volta che passava per andare dal droghiere o dal lattaio interrompevamo i nostri giochi per osservarla. Nessuna era bella come lei, tranne le attrici che vedevamo al cinema, ma quelle erano un’altra cosa. Avevamo anche imparato a fischiarle dietro come facevano i ragazzi più grandi e quando lei si girava per elargirci un “cretini” erano grandi manate sulle spalle e strilli di gioia.

Un giorno qualcuno scoprì che di lì a poco Mariella avrebbe compiuto quindici anni. Subito pensammo di farle un regalo. Qualcuno precisò: “…un regalo ‘molto da donna’… Dopo una ricerca scrupolosa nelle vetrine del quartiere e avere scartato una cinquantina di idee (eliminammo anche l’ipotesi di un reggiseno color rosa messo in mostra nella vetrina della merceria, perché andammo in confusione quando la commessa ci chiese la taglia), puntammo su una scatola di profumi esposta su uno scaffale della drogheria. Il signor Felice, il droghiere, teneva molto a quella scatola e la esponeva aperta perché si vedessero gli esemplari all’interno: una cipria, una brillantina, un profumo e una crema. A noi sembrò la cosa più bella che una ragazza potesse desiderare. Il signor Felice la tolse dallo scaffale quando glielo chiedemmo, e ce la mostrò da vicino. La chiuse perché potessimo ammirare il disegno in rilievo sul coperchio: un ventaglio e una mascherina contenuti all’interno di una cornice arabescata. Aprì e chiuse alcune volte la scatola per mostrarci l’effetto, poi la ripose sullo scaffale.

“E’ una scatola Paglieri,” esclamò inarcando le ciglia come se ci avesse rivelato un segreto. “Felce Azzurra,” concluse come se non occorressero altre parole. Quando disse il prezzo fu come se Tiberio Mitri avesse tirato un poderoso sinistro al nostro entusiasmo. Noi non avevamo paghette settimanali. Passavamo le domeniche pomeriggio al campetto dell’oratorio a tirare calci al pallone aspettando l’apertura del cinema parrocchiale gratuito alle quattro (prima di vedere il film, però, era obbligatorio assistere alla funzione). A qualcuno venne un’idea. Per due settimane ci offrimmo volontari di porta in porta per fare la spesa in cambio di una piccola mancia. Le massaie, con nugoli di bambini urlanti cui badare e le pentole sul fuoco, ben volentieri ci lasciarono l’incombenza. Con la “sporta” nella destra e il biglietto della spesa infilato nel libriccino sul quale il negoziante segnava gli acquisti -che poi sarebbero stati saldati all’ultimo del mese, giorno di paga dei mariti- entravamo dal droghiere, dal lattaio, dal macellaio o dal fruttivendolo e ritornavamo carichi trascinando il borsone con le due mani. Alla fine delle due settimane avevamo i soldi per la scatola di profumi Paglieri. Il signor Felice disse che tanto valeva incartarla perché era più bella così.

Il giorno del compleanno di Mariella ci presentammo davanti alla sua porta in un orario in cui la sapevamo sola in casa. Suonammo il campanello. A porgere il regalo dovevo essere io perché il più mingherlino e, benché coetaneo degli altri, il più piccolo. Forse così Mariella, vedendomi minuto e mossa a benevolenza, non mi avrebbe rifilato uno schiaffone. Avrei dovuto anche dire una frase di circostanza che immediatamente dimenticai quando la porta si aprì.

 Lei era sulla porta. Bellissima.

 Guardò me, noi, la scatola che porgevo a due mani. “Buon compleanno,” mi uscì con un filo di voce. Lei, dopo un attimo di esitazione, alzò il coperchio della scatola senza togliermela dalle mani e gli occhi le brillarono. Tolse la boccetta di profumo e con fare lento svitò il coperchio, inumidì il polpastrello e se lo passò dietro l’orecchio. Il gesto ci ammaliò e il profumo, misto al suo odore di ragazza, inebriò i nostri sensi. Le nostre guance si arroventarono fino a divenire rosse come mele e le mascelle, divenute inerti, cedettero. Restammo lì a fissarla senza respirare e a bocca aperta. Mariella ripose il profumo, prese la scatola, ci sorrise e con un gesto ci fece mettere in fila.

A uno a uno, con l’indice, ci spinse in alto il mento, richiudendoci la bocca. E a tutti diede un grosso bacio sulla guancia.

                Quello fu il nostro primo regalo a una donna. La stessa per tutti. E forse fu il più bello.

Ricordo d’Estate

Ogni anno, quando terminano le uggiose piogge primaverili e il sole intiepidisce l’aria tersa libera dai vapori e dalle foschìe cittadine, quasi sempre il pensiero va, a volte anche solo per un istante, a quell’estate di tanti anni fa, quando ancora ero ragazzo nella mia Venezia.
Avevo, nel 1947, quattordici anni, un fisico magro che si allungava di mese in mese, e una mente così colma di propositi e ambizioni che se si fosse potuto dargli un peso, il corpo non l’avrebbe retta.
Avevo da poco iniziato a lavorare come garzone da Venini, nella sua vetreria di Murano, proseguendo una tradizione che voleva tutti quelli della nostra famiglia soffiatori del vetro.

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Non ancora pronto a gestire il lungo tubo di ferro dentro cui avrei dovuto soffiare l’anima, facevo un lungo tirocinio nelle “piazze” (il luogo antistante al forno dove avviene la modellazione del vetro e si crea l’esemplare), pronto a intervenire là dove mi chiamavano, per fare il “servente” o il “serventino” e porgere al Maestro gli arnesi per modellare: le pinze, il mòllere, la forcella, le forbici o, spesso, una brocca d’acqua per dissetarlo.
D’inverno quando fuori si gelava e sulle paline, quelle che noi chiamiamo “Pali de Casada”, o sulle brìcole -i pali conficcati nella laguna per delimitare i canali navigabili- si formava uno strato di ghiaccio, mi piaceva andare in fornace. Lì si stava al caldo, i forni urlavano fiammeggianti, bruciando carbone e nafta, e c’era sempre qualcosa da fare.
Mi piaceva vedere le gote dei soffiatori gonfiarsi e alitare nella materia incandescente il loro soffio, il grumo, rosso e ardente, prendere forma, ingigantirsi e, docile, assumere la foggia che il Maestro gli assegnava. Ogni piazza aveva il suo soffiatore a seconda dell’abilità, del lavoro da svolgere e del peso dell’oggetto da soffiare, che a volte raggiungeva anche i venticinque chili. Allora la piazza non era posto per ragazzini. Dovevano operare tre o quattro operai robusti, ognuno con una sua particolare mansione, per aiutare il soffiatore.

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Spesso mi chiamava “Boboli”, che di nome faceva Arturo Biasutto, ma, come è consuetudine a Venezia dove tutti hanno un particolare appellativo, attribuito grazie a particolari discendenze o secondo il lavoro svolto, anche Biasutto era conosciuto con un soprannome. Io ero s’ciantisin (piccolo fulmine), non tanto per delle mie caratteristiche luminose o per peculiari specialità in quanto a velocità o rapidità, ma per il fatto che s’ciantisi era chiamato un mio bisnonno.
Il Maestro aveva preso a benvolermi e senza troppo mostrarlo -ché a Murano ognuno è geloso del proprio lavoro- ogni tanto mi permetteva di carpire qualche segreto del mestiere.
D’estate, la domenica, come accadeva da sempre, con alcuni amici salivo sul vaporetto e da Murano si andava al Lido a fare il bagno.
Qualche anno prima, quando ancora c’era la guerra, ci fermavamo prima alla Giudecca, l’isola proprio di fronte al Lido, dove avevano impiantato degli studi cinematografici. Passavamo la mattinata ai cancelli degli studi per vedere passare un divo, di quelli che avevamo visto al cinema, discutendo di Vivi Gioi, Luisa Ferida, Clara Calamai, Dina Sassoli. Una volta scorsi Osvaldo Valenti che al mio richiamo si volse e mi salutò con un cenno e un sorriso.


In piedi o seduti sul parapetto in pietra del Ponte Piccolo mangiavamo del pane con pesce fritto portato da casa e avvolto in carta oleata, poi attraversavamo la Giudecca e salivano sul vaporetto diretto al Lido.
Lì ci stendevamo al sole.
Ci pareva d’essere nel posto più bello del mondo, e per tutti noi il mondo si fermava all’orizzonte, dove cielo e mare, a volte, nella nebbia mattutina, si confondevano.
Un pomeriggio di mezza estate, mentre i miei amici giocavano nell’acqua con il pallone, e io a occhi chiusi mi beavo del calore del sole sulla pelle, steso sull’asciugamano che avevo promosso a telo da spiaggia, la palla rimbalzò a pochi centimetri dal mio fianco e si posò sul mio petto.
Qualcuno dei suoi geni il mio avo doveva avermeli trasmessi perché, nonostante le membra rilassate e poco desiderose di lasciare quella posizione di languido abbandono, istintivamente con un guizzo afferrai la palla e mi rotolai nella sabbia, così come avevo visto fare ai portieri nei cinegiornali, trattenendo il pallone tra le braccia.
Mi aspettavo l’arrivo dei miei amici e il loro tentativo di riconquistare la palla scalciandola, ma ero ben deciso a mantenere il mio ruolo di portiere improvvisato e cedere la sfera solo se avesse avuto inizio un regolare incontro.
“Mi puoi dare la palla?” chiese una vocina.
Era quello che meno mi aspettavo. Detti un’occhiata alla palla (che non era la nostra) e mentre giravo la testa verso la vocina lanciai un’occhiata ai miei compagni che giocavano ignari di quanto stava accadendo, felici di sguazzare nell’acqua.
Quella vocina apparteneva alla ragazza più bella del mondo. Non che a Venezia o a Murano non esistessero ragazze belle, ma eravamo cresciuti insieme, le conoscevo da quando erano alte così, non le consideravo ragazze, ma solo “antipatiche”, con cui mai avrei pensato di avere “confidenze”.
Ma forse in quelle ultime settimane i miei ormoni avevano compiuto un lavoro straordinario, risvegliati finalmente dalla primavera, e ora i miei occhi incantati fissavano una “ragazza”.
Indossava un costume con volants, aveva un cerchietto che le tirava indietro i capelli e un sorriso che letteralmente mi sciolse.
Probabilmente restai lì inebetito per pochissimi secondi, ma mi sembrò un tempo infinito.
“Prego, mi puoi dare la palla?”
Non parlava neanche veneziano e questo mi affascinò. Era una forestiera, una foresta, come erano chiamate le persone che venivano “da fuori”: la mitica creatura di un altro mondo.
Non ricordo quello che balbettai, ma le frasi che mi uscirono dalla bocca dovevano suscitare un qualche interesse, perché alimentarono una conversazione. Seduti sul mio asciugamano, io parlavo e lei ascoltava, poi parlava lei e ascoltavo io. Solo dopo una buona mezz’ora mi accorsi di avere ancora sotto braccio il pallone.
Neanche lei se n’era accorta, finché disse che doveva rientrare. La mamma, in albergo con un forte raffreddore, la stava aspettando.
In quella mezz’ora ci eravamo conosciuti: Loredana era in vacanza con la mamma da una quindicina di giorni; il padre, rimasto a lavorare a Milano, le avrebbe raggiunte di lì a poche settimane per un breve soggiorno.
Quella settimana camminai sulle nuvole in spasmodica attesa della domenica successiva, come pure le settimane seguenti. Lasciavo gli amici e mi piazzavo sotto l’ombrellone di Loredana a parlare fitto fitto, mentre la mamma, ristabilitasi, ci osservava comprensiva.
Intanto in fornace, nel pomeriggio di un lunedì di quell’estate, mentre lavoravo a un vaso con Boboli, scese Paolo Venini.
Aveva accanto a sé un giovanotto con una giacca dalle maniche troppo corte, un bel sorriso stampato sulla faccia e una cartella ben stretta sotto un braccio.
Venini fece un giro per le varie piazze, illustrando al giovane le varie fasi di lavorazione, finché si fermò accanto a noi.
Dopo aver atteso che Boboli terminasse la lavorazione e posasse sul banco il vaso appena modellato, Venini presentò il giovanotto al Maestro.
Potei sentire ciò che Venini diceva a Boboli, e il nome di quel ragazzo, che poi mi divenne familiare: Bianconi.
Si trattava di realizzare una serie di flaconi di profumo per un vecchio cliente, Giviemme, azienda profumiera di Milano per la quale già aveva lavorato Carlo Scarpa, che oramai si faceva vedere raramente in fonderia preso com’era dai suoi impegni di architetto. Fulvio Bianconi aveva disegnato quei flaconi e Venini aveva deciso di farli soffiare a Boboli, il suo miglior Maestro soffiatore.
Bianconi aprì la borsa e stese alcuni disegni sul banco.
Per una buona mezz’ora i tre discussero voltando e rivoltando i disegni, mimando con le mani le fasi di lavorazione, finché si misero d’accordo e si strinsero la mano.
Sarebbero stati creati quattro differenti flaconi per quattro nuove fragranze Giviemme: “Ricordo d’Autunno”, “Ricordo d’Inverno”, “Ricordo di Primavera” e “Ricordo d’Estate”, cinquecento multipli per tipo, per un totale di duemila esemplari: per la Vetreria Venini, che stentava a riprendere l’attività dopo la guerra e negli ultimi mesi del conflitto si era adattata a realizzare bulbi per lampadine, significava una boccata d’ossigeno.
Fulvio Bianconi aveva intenzione di iniziare subito, data l’eseguità della somma concessagli da Giviemme per la trasferta da Milano a Murano. Il designer alloggiava presso una famiglia di pescatori, e per quanto l’ospitalità fosse ottima desiderava far ritorno al più presto nella città lombarda. La scelta di Giviemme di inviare a Murano Fulvio Bianconi per disegnare e guidare la realizzazione dei flaconi non era stata dettata tanto dalle sue qualità di artista del vetro (Bianconi aveva avuto una breve esperienza in giovane età come disegnatore di vetri in un laboratorio veneziano), quanto dal fatto che il giovane aveva abitato per lungo tempo nella città lagunare e possedeva un’abilità innata per il disegno.
Il mattino dopo Fulvio Bianconi era in fonderia di buonora con quella borsa di disegni da cui mai si era separato.
Ancora i fogli vennero stesi su un tavolo.
Boboli aveva preparato uno stampo in ghisa all’interno del quale sarebbe stato soffiato il grumo di vetro fuso per conferire al flacone le caratteristiche linee trasversali che avrebbero colorato, mediante una serie di chiaroscuri, il vetro stesso.
Di nuovo i due ripresero a discutere alzando la voce, probabilmente dal punto in cui si erano lasciati il giorno prima, mentre alle loro spalle il forno infuocava la massa vetrosa messa a fondere, finché Boboli, con gesto d’impazienza, imbracciò la canna e pescò un grumo incandescente dalla fornace. Senza che me lo indicasse, con delle pinze avevo afferrato lo stampo ponendolo davanti alla canna. Boboli vi introdusse la massa vetrosa e soffiò.

Quando staccò le labbra dalla canna tolsi lo stampo e da quel momento fu un continuo introdurre e estrarre l’oggetto nel forno per ammorbidirne le superfici, modellarlo, torcerlo, incurvarlo, gonfiarlo, stringerlo, incalzato dai suggerimenti di Bianconi, che seguiva con attenzione ogni movimento del Maestro, mimando con le mani, quando le parole non bastavano, le forme che voleva ottenere.
L’impazienza di Boboli poco alla volta si quietò. Ora ascoltava con attenzione ogni intervento, rigettava nel forno il vetro non appena Bianconi esprimeva una perplessità sulla linea o sugli spessori, riprendendo l’opera dal punto in cui il designer aveva dato l’ultima approvazione.
Mentre passavo automaticamente gli arnesi per la lavorazione a Boboli, osservavo incantato la nascita di un oggetto strano, particolare, innovativo, come mai era stato creato nelle Fornaci Venini. Di lì a poco mi resi conto che il flacone riprendeva ironicamente le forme femminili, e scoppiai in una risata liberatoria che attenuò la tensione.
“X’é una dona!” esclamai e, contagiati, anche Boboli e Bianconi esplosero in una risata. Ci stavamo divertendo.
Bianconi mostrò ancora un disegno al Maestro.
“Ora le braccia”, disse, e rapidamente due prese vennero applicate a caldo, sistemate e modellate ai lati della figura.
“I seni!” esclamò Boboli. E due gocce di vetro si posarono sulla parte alta del flacone, in corrispondenza del petto.
Alla fine appoggiarono delicatamente l’esemplare sul banco e lo rimirarono.
“X’é contento?” chiese Boboli a Bianconi.
“Sì, e tu?” Boboli fece un cenno con la testa. Da quel momento si sarebbero sempre dati del “tu”.
Nelle settimane che seguirono aspettavo la domenica per correre al Lido. Gli amici oramai non mi consideravano più del gruppo, e ogni tanto sul vaporetto facevano scherzi e allusioni chiamando me e Loredana “fidanzatini”.
In fonderia non avevo tempo per distrarmi. Boboli e Bianconi non mi lasciavano un attimo di tregua, dovevo essere sempre pronto a porgere gli arnesi per modellare o procurare loro quanto mi chiedevano.
Il designer, poi, occupava ogni attimo libero per disegnare la confezione che doveva contenere i flaconi e le immagini che l’avrebbero decorata.
Dopo il primo esemplare, Bianconi e Boboli modellarono gli altri tre, che avrebbero completato la serie, quindi si diedero a duplicarli.


In agosto, ultimati i duemila esemplari, un camion venne a caricarli per portarli a Milano, e sul sedile dell’accompagnatore si sedette colui che li aveva immaginati. Nella capitale lombarda i flaconi sarebbero stati riempiti con le varie essenze, quindi posti nei loro variopinti contenitori, e inviati nei negozi per la vendita.
Rividi Bianconi i primi giorni di settembre. Come appresi più tardi, Venini, dopo avere verificato la creatività dell’artista, l’aveva voluto come direttore della Vetreria. Con sé Bianconi portava mezza dozzina per tipo dei flaconi “Le Quattro Stagioni” che tanto avevano colpito lo spirito raffinato e innovativo di Paolo Venini. Gli esemplari vennero posti in magazzino su uno scaffale per essere utilizzati in futuro per eventuali mostre.


Stava intanto per giungere la fine delle vacanze per Loredana.
Quella sarebbe stata l’ultima domenica che ci saremmo visti e pensai di portarle un regalo.
Il desiderio non era facilmente realizzabile poiché i regali avevano un costo e io non possedevo risparmi: papà centellinava le monete per il vaporetto della domenica non certo per avarizia, ma perché eravamo poveri.
La mattina di quel sabato precedente il mio ultimo incontro con Loredana, in officina maledissi la mia povertà accennando a Boboli della insopportabile sventura che mi colpiva. Ero certo che senza un dono che potesse serbarmi nei suoi ricordi, la ragazza della mia vita si sarebbe scordata di me. Dovevo avere un’espressione sgomenta e avvilita perché Boboli, che da settimane sopportava le mie confidenze senza mostrare di farci caso, si mosse a compassione.
Prima di sera, dopo avere terminato il lotto di bicchieri che stava soffiando, si allontanò e non si unì ai veci che facevano croccolo per raccontarsi delle loro vicende o spettegolare sui lavori delle altre fornaci.
Tornò poco dopo con un involucro e me lo porse dicendo:
“G’ò parlà col sior Venini e col Fulvio e i me lo g’à dà”.
Così disse, con quel suo solito fare brusco e ruvido. Sapevo che quell’atteggiamento era solo una posa e non vi avevo mai dato peso.
Scostai appena la carta che avvolgeva l’oggetto e intravidi la scatola di “Ricordo d’Estate”, il più bel flacone di profumo al quale avessimo mai lavorato.


Quando il giorno dopo mostrai a Loredana il regalo, lei sorrise di gioia e gli occhi le brillarono. Avere in dono un’essenza era un modo per sentirsi “donna”. Volle provarne una goccia, e quel profumo, legato al suo odore di giovane ragazza, mi rapì. Non avevo mai immaginato che un profumo potesse creare un simile incantamento.
Forse nessuno se ne accorse, ma quelle ore di fine estate passate sotto l’ombrellone, avvolti nel profumo di Ricordo d’Estate, furono il momento in cui l’adolescenza lasciò il passo alla giovinezza. Forse fu una parola, un gesto, a farci cambiare, oppure fu un’ombra che passò nei nostri occhi e ci fece per un istante rabbrividire, ma quando all’imbrunire ci lasciammo, con la brezza fattasi più fresca, eravamo strani, e, anche se apparentemente nulla era mutato, più maturi.
Non ho più rivisto Loredana.
O forse l’ho incrociata. Successe molti anni dopo a Milano, nella metropolitana, mentre attendevo il treno durante l’ora di punta. Il convoglio si fermò, le porte si aprirono e nella calca, tra le persone che uscivano dai vagoni e quelle che entravano, riconobbi il profumo Ricordo d’Estate. Fu come se d’improvviso tornassi sulla spiaggia del Lido. Girai il capo a destra e a sinistra. Non riuscivo a percepire la provenienza della fragranza. Era lì e d’improvviso si era dissolta alla chiusura delle porte.
“ Loredana…Loredana!” chiamai.
Il treno riprese la sua corsa e la banchina si svuotò.
Ero confuso, continuavo a girare su me stesso fiutando l’aria.
Lì vicino un vecchio seduto su una panchina, con un impermeabile sporco e sdrucito, un cappellaccio calato sugli occhi e la barba lunga prese a ridacchiare.
“Loredanaaa…Loredanaaa…” scherniva. “Loredana non c’è più!” e sghignazzava facendo sobbalzare il petto.

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