Un portentoso Naso napoletano

Mi hanno detto che Don Ciccillo è malato e probabilmente non passerà la settimana.

Da qualche tempo non lo vedevo più a via Toledo dove abitualmente sorseggiava un caffè seduto a un tavolino sul marciapiede, una mano mollemente appoggiata al pomello in vetro del bastone da passeggio. Sapendo che vive da solo avevo immaginato fosse andato a abitare dalla sorella a Castellammare, ma  mi hanno confermato che sta ancora in Vico Consiglio.

Quanti anni può avere Don Ciccillo? Dopo aver compiuto i novanta il conto sulla sua età si è fermato: del resto nessuno sa con certezza in quale anno sia nato.

Mi dicono che adesso è steso a letto, il corpo scheletrico che s’indovina appena sotto il lenzuolo, il viso affilato dal quale emerge, prepotente, smisurato, colossale, il naso.

Don Ciccillo ha un grande naso: in tutti i sensi, sia nelle proporzioni (un enorme naso a forma di patata, solcato da una ragnatela di venuzze, una protuberanza alla quale si aggrappava d’istinto ogni infante che Don Ciccillo prendesse in braccio), sia nella capacità di percepire gli odori. Io che per tanti anni sono stato il suo lavorante posso confermarlo.

Quando eravamo seduti al tavolino del caffè a sorbire una granita o una limonata bastava che un filo… che dico…, che un’ombra odorosa gli passasse sotto il naso, ed ecco le narici vibrare, i capillari ingrossarsi e farsi più rossi, e Don Ciccillo esclamare:

“Donna Rosa ha messo in tavola spaghetti cape e core”.

Sentivo la bocca riempirsi di saliva  mentre immaginavo Donna Rosa nella cucina di casa a circa trecento metri friggere l’aglio, i pomodorini, e a metà cottura calare le anguille tagliate a tocchi per poi versare quella delizia in una casseruola con gli spaghetti al dente.

Quando entrava nel vicolo dove teneva il suo laboratorio, Don Ciccillo sapeva dire quel che si stava cucinando anche nel ‘basso’ più lontano, e nel momento in cui  passava davanti a una di quelle porticine sempre aperte, per rischiarare l’antro in cui una famiglia abitava, gli bastava fiutare l’aria per riconoscere la persona che in quel momento vi dimorava. “Buona giornata Donna Filumena… Buon pranzo Don Vincenzo,” salutava, mentre dall’interno gli ricambiavano gli ossequi.

Con il naso Don Ciccillo si guadagnava da vivere.

Ideava profumazioni per le drogherie che vendevano profumi a peso, fragranze per le giovani che andavano a nozze, aromi per le feste, e -ogniqualvolta gli venisse richiesto- filtri odorosi per ammaliare l’amato o l’amata.

Più complesse erano le creazioni per quei signori con la bombetta e l’orologio d’oro nel taschino del panciotto che venivano a trovarlo ogni inizio del mese: i profumieri Cannavale o quei francesi che avevano acquistato lo stabilimento di profumi e saponi profumati dai fratelli D’Arène alcuni anni prima, i Bellet Sénés e i Courmes. Don Ciccillo si chiudeva nel laboratorio e discuteva con loro per ore, finché i committenti uscivano sorridenti fregandosi le mani.

Per la Casa Cannavale, Don Ciccillo aveva creato alcune composizioni come “Acqua di Colonia Odalisca”, “Antinea” e l’estratto “Delia”, mentre “Acqua Balsamica di Napoli” e l’estratto “Grotta Azzurra” erano stati cavalli di battaglia realizzati per la Bellet Sénés & Courmes.

L’altra attività per la quale Don Ciccillo era famoso nel quartiere, e giù giù sino a Mergellina, era la cura che riservava ai malati.

Sissignori, Don Ciccillo sapeva individuare quale malattia debilitasse una persona, semplicemente annusandola.

Questo aveva il fegato malato, quello un’ulcera, quell’altro ancora i calcoli ai reni. A un omone che faceva il facchino diagnosticò il soffio al cuore, e si recò lui stesso giù al porto perché il caporale assegnasse a questo un lavoro più leggero, cosa che ottenne poiché tutti conoscevano l’acutezza di Don Ciccillo nel formulare le diagnosi. Lui arrivava, annusava (e pareva che il naso s’ingrossasse ancora di più), fiutava il corpo del malato, l’alito, l’odore delle ascelle, mentre il naso si faceva dapprima rosso e poi violaceo. Il viso quasi gli scompariva mentre si evidenziava prepotente l’enorme incontenibile appendice. Una volta accertata la malattia, pareva che a parlare fosse quella proboscide.

Don Ciccillo era un artista, sia nell’arte medica sia in quella di profumiere, ma mancava totalmente di capacità organizzativa. Per questo mi aveva assunto; il mio compito era tenere i conti, accertare le entrate e le uscite, pagare i debiti e riscuotere i compensi per le sue prestazioni: fare il contabile, insomma.

Nel laboratorio in Vico Consiglio regnava perennemente il disordine, ma l’uomo possedeva una naturale abilità nel districarsi tra tutte quelle bottiglie di essenze, e ‘a naso’ sapeva scegliere il giusto ingrediente per dare vita a una nuova creazione. Per individuare le sostanze adatte non occorrevano etichette sulle centinaia di fiaschi, flaconi e bottiglie sparse un po’ ovunque, e nemmeno un posto preciso dove collocarle dopo l’uso; nel momento in cui un elemento gli serviva, Don Ciccillo volgeva l’appendice verso l’alto, e annusava: le narici fremevano, la punta del naso s’arrossava e diveniva viola, e la mano, quasi automaticamente, si spingeva in fondo a una scansia, sotto un tavolo tra fiaschi mezzo vuoti, dietro uno stipite, e persino nei cassetti della mia scrivania (dove stavano pure i conti della ditta di cui Don Ciccillo rifiutava di interessarsi) fino a raggiungere il punto in cui una boccia con alcune gocce di sostanza era stata abbandonata alcuni mesi prima.

Non è che a Don Ciccillo i denari non interessassero, ma non era tagliato per gestirli, per preoccuparsi dei pagamenti, delle riscossioni, di tutto quel lavoro da ragioniere che mi aveva incaricato di svolgere. L’unico interesse che aveva verso il denaro risultava come spenderlo.

Don Ciccillo è indubbiamente un genio, ha ricevuto un dono immenso dalla natura, è di ottimo carattere, ma -questo bisogna proprio dirlo- ha le mani bucate. Non passava giorno che entrando in laboratorio non mi chiedesse “Quanti soldi abbiamo in cassa oggi?”

Io tiravo fuori da un cassetto il libro dei conti e cominciavo: “Dobbiamo ricevere 200 lire dal calzolaio per la guarigione del figlio… Donna Concetta deve ancora pagare il profumo per lo sposalizio della figlia dell’anno passato …”

Ma Don Ciccillo se n’era già andato sventolando nell’aria una mano, infastidito da quella elencazione.

Così un giorno gli venne in mente di fare tanti soldi in maniera facile e veloce. Entrò nel laboratorio, si mise davanti alla mia scrivania e mi puntò addosso il suo naso.

“Andiamo a Montecarlo a giocare alla roulette”, disse.

Come gli fosse balzata in mente questa idea non saprei dirlo, epperò Don Ciccillo mi usò la cortesia di mettermi al corrente del suo piano. Saremmo partiti in treno da Napoli la mattina presto, e una volta a Montecarlo ci saremmo recati al Casinò, alla roulette. Avremmo puntato una cifra su un numero e, un attimo prima che la pallina fosse stata lanciata nella ruota, Don Ciccillo con il suo odorato avrebbe ‘sentito’ su quale numero si sarebbe fermata. Gli avevano assicurato che  il croupier avrebbe pagato la posta moltiplicata per trentacinque volte.

L’obiettivo era sbancare il banco e fare ritorno la mattina seguente a Napoli.

Veni, vidi, vici.

Il primo pensiero che mi si affacciò alla mente fu che l’estrema sicurezza circa le potenzialità della sua appendice l’avesse fatto uscire di senno; ma passato il primo momento iniziai a nutrire qualche dubbio sul mio giudizio. Non l’avevo forse visto fare cose straordinarie con quel naso? Individuare malattie che i medici non sapevano diagnosticare? Indovinare con estrema precisione il lavoro che il signore in fondo alla strada, ben vestito, aveva svolto quella mattina? E qui non voglio dilungarmi su quanto Don Ciccillo poteva scoprire su una sconosciuta signora o signorina che gli passasse accanto, semplicemente fiutando la scia odorosa che questa si lasciava dietro. Rivelazioni che mi facevano arrossire fino alla radice dei capelli.

Don Ciccillo mi mandò in giro per mezza Napoli nel tentativo di farmi riscuotere, almeno in parte, antichi crediti: dopo una settimana avevo già recuperato, tra pianti, strilli, preghiere, minacce, diecimila lire: a quei tempi una somma considerevole. In gran fretta Don Ciccillo mi spedì al Banco per cambiare gli spiccioli in più dignitose banconote, con le quali riempii il portafoglio che fissai con una grossa spilla da balia alla fodera della giacca, poiché era risaputo che sul treno viaggiavano ladri, borsaioli e affascinanti spie russe.

La prima parte filò secondo i piani. Prendemmo il treno all’alba e ci sistemammo nello scompartimento di un vagone.

Per quanto facessi attenzione ai viaggiatori che ci sedevano accanto non scoprii alcuna affascinante spia russa, pur se ciò non escludeva il fatto che potessimo essere circondati da ladri e borsaioli.

A Firenze prese posto un signore corpulento che dopo averci soppesato con lo sguardo per una buona mezz’ora chiese se qualcuno fosse diretto a Montecarlo. Spiegò che aveva un sistema infallibile per vincere allo ‘chemin de fer’ e stava cercando un socio per fare a mezzo delle puntate.  Sproloquiò così fino a Genova, poi visto che nessuno gli dava retta cambiò posto.

Arrivammo a Montecarlo che già imbruniva. La città pareva un paese sonnolento sopra un mare finto, un mare senza fiato e senza suono, calmo, bellissimo e indifferente.

Don Ciccillo fiutò l’aria e esclamò “Qui c’è odore di carta moneta!”

Ci facemmo indicare la strada per il Casinò e subito ci incamminammo verso il palazzo.

Don Ciccillo mi fece cambiare in gettoni tutto il denaro che custodivo nel portafoglio. Si assicurò che avessi cambiato anche i soldi per il viaggio di ritorno, quindi ci recammo alla roulette.

Attorno al tavolo non vi erano molte persone, forse perché il Casinò aveva appena aperto; quindi trovammo rapidamente posto su due sedie. Dopo aver osservato alcuni giri della ruota Don Ciccillo mi ordinò di mettere sul banco mille lire in gettoni, che rapidamente spostò sul panno verde verso il numero 7. La pallina rotolò nella roulette, quindi si fermò sul 23. A Don Ciccillo spuntò sulle labbra un mezzo sorriso.

Iniziai a allarmarmi. Non c’era stata vincita.

Don Ciccillo mi chiese altri gettoni per mille lire. Mi domandai se fosse il caso di scomodare San Gennaro per un aiuto dal Cielo.

La mano ferma di Don Ciccillo trascinò i gettoni sul numero 20.

La pallina girò di nuovo sulla ruota, fermandosi sul numero 12.

Avevamo perso ancora, e mentre una risata nervosa usciva dalle labbra del mio datore di lavoro, rapidamente mi convinsi che non era il caso di indugiare: si rendeva necessario, anzi indispensabile, interpellare San Gennaro perché desse un’occhiata a quanto stava accadendo.

Don Ciccillo mi tese una mano.  “Mille lire!” Non osai ribattere, anche perché ero certo che la mia invocazione a San Gennaro non potesse rimanere inascoltata.

I gettoni scivolarono sul panno verde per posizionarsi nella casella del numero 25 e, dopo diversi vorticosi giri della ruota… uscì un altro numero, quale fosse non ricordo perché la mia vista iniziò a annebbiarsi mentre il sangue abbandonava rapidamente il mio cervello.

Percepii che Don Ciccillo rideva soddisfatto e si fregava le mani dalla contentezza.

“Tutto!” esclamò, “punto tutto!”

D’istinto mi gettai sui gettoni rimasti arginandoli e coprendoli con le braccia, deciso a difenderli dalla folle volontà di Don Ciccillo, ma il suo naso enorme e minaccioso mi si parò davanti, a pochi centimetri dal viso, terrorizzandomi.

Non era l’uomo che parlava, ma il naso.

“Tutto!” ringhiava.

L’appendice pacioccona a patata era divenuta una bomba pronta a esplodere.  “Tutto!”

Era quello il demone del gioco? Avremmo perso ogni denaro e saremmo rimasti per sempre in quella terra straniera senza soldi. Come avremmo mangiato? Come saremmo sopravvissuti?

“Sciocco e inutile essere, non capisci che è tutto previsto? So io quel che si deve fare, molla le   ‘fiches’!”  esclamò Don Ciccillo calandomi il pomo di vetro del suo bastone sulla nuca.

“Le fiches”: Don Ciccillo aveva già imparato il francese. Cosa ne sarebbe stato di noi? Oramai ero convinto che San Gennaro fosse troppo occupato altrove per dar retta a me.

D’improvviso Don Ciccillo si calmò e il naso ritornò a essere quella benevola patata che conoscevo.

“È tutto previsto,” disse. “Ora vincerò.”

Fu quell’aria rassicurante che mi fece lasciare la presa, o forse il colpo ricevuto sulla nuca, o chissà, mi ero oramai abbandonato al destino.

Don Ciccillo annusò fremente l’aria a destra e a sinistra, riconobbi i colori di quella sua appendice che viravano dal rosa al rosso e al violaceo. Quindi spinse il resto dei gettoni sul numero 21.

Il croupier lanciò la pallina nella ruota numerata e gridò “Rien ne va plus!”

Vedevo la pallina ingigantire mentre correva sui bordi della roulette, prendere fuoco, crescere a ogni giro: ogni secondo poteva essere la vita o la morte. Il gelido sudore della disperazione mi ghiacciava la fronte. La pallina rallentò, incespicò in un numero, rimbalzò, riprese vigore nella corsa e quindi s’incastrò in una casella.

“Vingt et un!” esclamò il croupier.

Un ‘Oooohhh!’ si levò dal pubblico che era andato formandosi attorno al tavolo.

“Cosa…come?” balbettavo. “Che numero è uscito…? Cosa ha detto il direttore?” Per me tutti quelli in frac erano direttori. “…Ventuno?”

“Te l’avevo detto!” quasi urlava Don Ciccillo allargando le braccia per accogliere la montagna di gettoni che con il rastrello il croupier spingeva verso di noi.

Levai gli occhi al cielo sopraffatto dalla commozione.

“Uomo di poca fede!!! Miscredente!” Irrisi me stesso. San Gennaro non mi aveva abbandonato, non sarei rimasto lì in terra straniera a morire di fame.

La vincita fece radunare rapidamente un capannello di persone alle nostre spalle. Qualcuno toccava lievemente una spalla di Don Ciccillo sperando in un contagio della dea bendata, mentre in uno stentato italiano incitava:

“Punti ancora, cavaliere!… Rosso o nero? Su quale colore vuole giocare?… Commendatore, dica su quale numero farà la giocata…”

Il croupier urlò “Faites vos jeux!” e Don Ciccillo si alzò. Agitò in aria il bastone come un gladio.  Fedele al motto cesariano e fendendo la piccola folla esclamò “È ora di andare!” e mi spedì a cambiare i gettoni, le fiches, come anch’io, oramai appassionatamente innamorato di quei dischetti distributori di ricchezza, confidenzialmente li chiamavo. Quindi uscimmo.

La ricchezza pesava, mi opprimeva. Tenendo la mano sul portafoglio che di nuovo avevo fissato alla fodera della giacca con la spilla da balia, ci avviammo verso la stazione come ladri nella notte.

Quanto tempo fossimo rimasti nel casinò non saprei dirlo. Mi sembrava fosse passata sì e no un’ora, e invece era già l’alba.

Davanti a noi una giovane donna camminava lenta, senza rumore, come una sonnambula sull’acqua trascinando una festosa coda di lustrini.

Al bar della stazione, aperto tutta la notte per accogliere i vincitori e i vinti della roulette (anche chi voleva fare un ultimo brindisi prima di gettarsi sotto un treno), Don Ciccillo annusò nuovamente l’aria e mi impedì di sorbire o assaggiare qualsiasi veleno prodotto in quella terra straniera, così prendemmo il primo treno per la frontiera con la promessa di rifocillarci finalmente una volta giunti a Napoli con caffè, babà e struffoli.

Durante il viaggio, a pancia vuota e a mente lucida chiesi timidamente a Don Ciccillo quale fosse il segreto della sua vincita.

Don Ciccillo alzò il dito medio e lo batté più volte su una delle narici del suo poderoso naso, quindi chiuse gli occhi e si appisolò.

Sarà stato vero? Questione di “naso” o l’uscita del numero 21 fu un caso fortunato?

Per anni, nei momenti più impensati ho rivolto la domanda a Don Ciccillo, il quale ha invariabilmente risposto battendo il dito indice su una narice senza proferire parola.

Voleva forse indicarmi i misteriosi poteri del suo naso o intendeva comunicarmi un codice segreto?

Quel pensiero mi ha tenuto sveglio per notti intere, durante le quali ho cercato di interpretare quel  gesto.

Ora mi hanno detto che Don Ciccillo è malato e non passerà la settimana.

Mi sono recato a trovare Don Ciccillo.

Proprio come mi era stato riferito: un gran naso sprofondato in un cuscino.

S’era fatto così magro che il suo corpo neanche più s’intravedeva sotto il lenzuolo. Solo una leggera gibbosità che partiva dal petto e sfumava via via scendendo verso i piedi per materializzarsi solo alle estremità.

Mi ha riconosciuto subito e ha sorriso. Sembrava rincuorato nel vedermi.

Dopo i convenevoli e averlo rassicurato che d’aspetto lo vedevo proprio bene, gli ho ricordato i nostri tempi migliori.

Faticosamente mi ha detto “È tutta colpa del mio grosso naso, la vita mi esce da lì”.

Ho finto di non dar peso alle sue parole.

“Vedrete che vi rimetterete e andremo di nuovo a bere la granita in via Toledo,” ho celiato; poi, ridendo alla reminiscenza che mi mi si affacciava, aggiunsi:

“Vi ricordate Don Ciccillo quella volta che andammo a Montecarlo e voi vinceste quella montagna di soldi?”

Il grande naso fece sì.

“Tante volte mi sono chiesto come faceste.”

Fissavo speranzoso quel naso divenuto pallido, senza più la ragnatela di venuzze che lo attraversavano.

“Come faceste Don Ciccillo?” ripetei.

Mi pareva che il naso si muovesse, m’invitasse a accostarmi, così mi sono chinato e ho posto l’orecchio  proprio sulla punta dell’appendice.

Ho atteso qualche secondo e mi è sembrato che qualcosa mi sfiorasse il viso.

Il naso di Don Ciccillo si stava sgonfiando. Come un pallone punto da un ago l’appendice lentamente si svuotava e si afflosciava.

Il folletto, il genio della lampada che aveva dimorato in quell’appendice se ne stava andando.

Il volto si materializzò da dietro il naso, sorridente, tranquillo come tante volte l’avevo visto nel suo laboratorio dopo aver creato una profumazione, come sgravato da un peso opprimente.

Chissà, forse aveva suggerito la risposta alla mia domanda, e io non avevo sentito.

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