Madame Jou Jou

Sì, certo che mi ricordo di madame Jou Jou. A tanti anni di distanza rivedo ancora il suo mento a tre ponti, rotonda, sotto un cappello di seta nero che pareva un ombrello, oppure con una specie di cuffietta alla quale era appeso uno strascico di tulle. Grassa, eternamente insaccata in un abito attillatissimo, di un paio di misure inferiore a quello che avrebbe dovuto contenere il suo corpo, un occhialino pendente sul petto che all’occasione avvicinava all’occhio destro per osservare attraverso la lente il mondo che la circondava.
Madame Jou Jou, come tutte quelle signore che non hanno nulla da fare, era indaffaratissima: presidentessa della “Goccia di latte” per il soccorso dei bambini poveri di Parigi, coordinatrice del “Corpetto di Lana” per le madri povere dei bambini poveri della periferia parigina, direttrice del “Tozzo di Pane” per i mariti delle madri povere dei figli poveri che abitavano nei sobborghi: consorti scioperati e fannulloni che le seguaci di madame Jou Jou cercavano di redimere andandoli periodicamente a scovare nelle osterie e nelle bettole la cui dislocazione (per andare a colpo sicuro) madame aveva segnato su una grande carta topografica della città appesa al muro nel salotto di casa.

Si favoleggiava che in gioventù madame Jou Jou fosse stata una chanteuse. Una di quelle giovani che sul palcoscenico dei teatri e dei cafés chantant intrattenevano il pubblico con canzonette, mossette audaci e piccole pièces teatrali. Si raccontava inoltre che avesse avuto molto successo dall’altezza, se così si può dire, dei suoi sedici anni con una inesauribile fila di corteggiatori che stazionava stabilmente alla porta del suo camerino; poi il vizio l’aveva rovinata. No, non quello che pensate voi. Il vizio di madame Jou Jou erano i bignè alla crema i petits fours, i croquembouche, i calissons, di cui letteralmente si ingozzava: come tutti sanno una donna “in carne” è spesso più apprezzata piuttosto di una giovine secca e spigolosa, ma c’è un limite, e già a vent’anni la bella JouJou era, come si suol dire, “fuori gioco”.
Nessuno amava veder saltellare sul palcoscenico un’artista con l’adipe debordante dai lacci che le serravano i fianchi, e che tremolava come gelatina a ogni sobbalzo.
Per sua fortuna, durante il breve periodo di corteggiamento madame Jou Jou aveva ricevuto tanti di quei doni e tanti di quei gioielli che, oculatamente mutati in franchi, le avevano procurato una rendita con cui vivere agiatamente.
Ricordo il giorno in cui madame mi chiamò perché l’accompagnassi dal pittore che le stava facendo il ritratto: l’immagine del suo volto più che a grandezza naturale da porre sulla parete del salotto di fronte alla cartina della città di Parigi, così che l’occhio accorto della benefattrice potesse vigilare sui luoghi malsani della capitale.
La mia presenza era ritenuta indispensabile poiché madame affermava che “non fosse opportuno” per una donna sola frequentare l’atelier di un artista. Lei sapeva bene cosa accadeva tra un pittore e la modella (e nel dire questo abbassava la voce e accostava le labbra all’orecchio dell’ascoltatrice che invariabilmente dava segno di inorridire spalancando gli occhi e coprendosi con una mano la bocca dalla quale usciva un “uuh!” di stupefatta indignazione).
Arrivai con un taxi e subito scorsi la mole di madame Jou Jou sul portone che mi aspettava. Impugnando impaziente l’occhialino fece finta di non riconoscermi finché non le fui sotto il naso. Probabilmente adirata per il ritardo dovuto al traffico e senza neanche salutarmi, rapida mi prese sottobraccio conducendomi al taxi in attesa. Come si addice a un buon cavaliere aprii la portiera a madame, che si accomodò al centro del sedile posteriore come una matrona sul trono. Quando fu il mio turno cercai educatamente di guadagnarmi un piccolo spazio, ma quella dama imprigionata in un busto rigido dal quale schizzavano un seno prorompente, fianchi poderosi e un enorme didietro non si degnò di cedermi un millimetro di sedile.
Restai rannicchiato in uno spazio angusto, finché finalmente giungemmo allo studio del pittore.

L’artista, un ritrattista a quel tempo assai noto a Parigi, lavorava in uno studio all’ultimo piano di un vecchio palazzo, che sembrava la copia esatta della scena che avevo visto all’Opéra quando rappresentarono La Bohème di Puccini: una grande vetrata obliqua che occupava una parete e parte del soffitto, tele bianche contro i muri in un disordine bene organizzato, una pedana con una poltrona per il modello e, di fronte, un cavalletto sul quale era appoggiato un grande quadro coperto da un drappo, all’interno di una mastodontica cornice dorata.
Probabilmente il pittore doveva dare solo gli ultimi ritocchi, visto che aveva già montato la sua opera nella cornice.
L’artista fu molto ossequioso: sfiorò con le labbra le dita (che parevano salamini stretti in preziosi anelli) di madame Jou Jou, quindi le chiese gentilmente se volesse rinfrescarsi con una bevanda.
Madame glissò e si fece accompagnare nel locale attiguo dove avrebbe dovuto sistemarsi per la posa. La massa semovente trascinandosi a piccoli passetti s’infilò nel locale, chiudendosi ermeticamente la porta alle spalle.
L’attesa durò più o meno una mezz’ora durante la quale l’artista non smise di osservare trasognato la porzione di cielo che si intravedeva dalla finestra, mentre io giravo inquieto lo sguardo sulle pareti e sul telo che nascondeva il ritratto di madame Jou Jou. Chissà cosa si celava dietro quella coperta, e chissà con quale ispirazione il pittore aveva ritratto quella montagna di carne.
Sulla parete di fronte alla vetrata ticchettava un orologio a pendolo. Il suono ingigantito dal silenzio che gravava nella stanza attirò la mia attenzione e osservai incuriosito la lancetta più grande sul quadrante che scattava a ogni minuto. Attesi così, contando mentalmente i secondi, che l’astina raggiungesse un punto preciso sul quadrante per udirne i rintocchi. Aspettai paziente alcuni minuti, quindi strizzai gli occhi e tappai delicatamente gli orecchi immaginando chissà quale frastuono al battere del quarto d’ora. Non accadde nulla. L’astina superò indifferente la cifra per proseguire il suo lento percorso. In quell’attimo madame Jou Jou uscì dalla stanza in cui si era rinchiusa esattamente come era entrata: stessa pettinatura, stesso rosso sulle labbra, il medesimo colore sulle guance, ma… ma… quello che mi incantò fu l’odore squisito che madame esalava.
L’artista sembrò destarsi dal suo torpore, si scosse e le andò incontro.
Madame gli porse delicatamente la mano, e il pittore l’accompagnò alla pedana facendola sedere nella poltrona, dentro la quale la donna si immerse tenendo le ginocchia (nascoste dall’ampia gonna da cui spuntavano le gigantesche scarpe di vernice nera) scostate. L’artista, dopo averla omaggiata con un lieve inchino, rapidamente si ritirò ponendosi davanti all’opera.
Con gesto teatrale scoprì il capolavoro e d’improvviso apparve il ritratto di madame Jou Jou.

O almeno… sì, quello in effetti era il ritratto di madame, ma… ecco, non era quella dama che avevo appena accompagnato in taxi e che mi aveva stritolato con la sua mole ondeggiante a ogni curva; era un volto delicato, esile, colmo di grazia, le labbra erano rosse, carnose, piene di promesse, lo sguardo audace e spavaldo. Sorrideva e fissava con gli occhi luminosi ombrati dalle lunghe ciglia un punto lontano, oltre la tela, oltre le pareti, oltre le nuvole, oltre… oltre il passato. Così l’aveva rappresentata l’artista, così aveva interpretato quell’imponente figura. Fissai il ritratto davanti al quale mi ero posto, quindi allungai il collo per guardare madame Jou Jou.
Lei era lì, possente, altera e mansueta, sprofondata nella poltrona. Ero sbalordito.
Il pittore sembrava aspirare affannoso quell’odore così benefico che giungeva da madame.
Quale malìa, quale incantamento lo aveva preso per rappresentare madame Jou Jou in quel modo?
L’artista sembrava invasato. Colpiva con rapidi colpi di pennello alcuni punti della tela, sfumava una tinta, toglieva e aggiungeva toni alla pittura.
Alla fine, spossato, si allontanò di alcuni passi e rimirò il dipinto piegando la testa a destra e a sinistra.
Dopo alcuni minuti sorrise e il volto gli si illuminò di soddisfazione.
L’opera era terminata.
Fiutai l’aria dapprima a lievi respiri, poi a pieni polmoni, ma quel profumo era oramai scomparso.
Madame Jou Jou con grande sforzo si issò dalla poltrona, fissò il dipinto e parve soddisfatta. Disse all’artista che avrebbe mandato qualcuno a ritirare il ritratto, lasciò che il pittore le sfiorasse con le labbra i salsicciotti inanellati e arrancò verso l’uscita.
Confuso e turbato riaccompagnai madame Jou Jou al taxi e, una volta partiti, approfittando della contiguità, osai toccare quella massa di carne, forse sperando che tutta quella “ciccia” fosse finta, una corazza di cartapesta che nascondesse il figurino del dipinto, ma affondai il dito nell’adipe. Madame girò il faccione ornato dal triplo mento e forse pensò che quell’“assaggio” fosse dovuto allo scuotimento dell’automobile, quindi mi ordinò di stringermi di più nel mio già esiguo spazio.
Quando giungemmo a destinazione scesi rapidamente e le tenni ossequiosamente aperta la porta dell’auto finché madame, con sforzo, riuscì a riemergere dalla posizione nella quale era inabissata. Osservai quel donnone enorme, simile a un ippopotamo dondolante su gambe che parevano colonne, dirigersi verso il portone.
D’un tratto un residuo di quell’elisir odorato nello studio del pittore, forse impigliatosi nelle pieghe delle mie vesti, mi giunse alle narici. L’aspirai goloso, e vi assicuro che quanto sto per dire è la verità: vidi madame Jou Jou voltarsi a mezzo, identica al dipinto che avevo appena ammirato, snella e scattante sulle gambe avvolte nella seta, colma di giovinezza e beltà, fluttuante in un vestito primaverile. Un soffio di vento malizioso tentò di scompigliarle la gonna, ma prontamente lei contenne con una mano lo svolazzo della veste, mentre con l’altra frenava il copricapo pronto a compiacere il capriccio della brezza. Si ricompose e mi sorrise.
Portò le dita alle labbra e mi scoccò un bacio. Si girò e sparì nell’atrio del palazzo.
