Sapore di Cipria

Per me, quattordicenne di un tempo,  il primo incontro con la cipria avvenne, così come per la maggior parte dei miei coetanei, a una  festa.

Erano gli inizi degli anni sessanta, e per il suo compleanno una compagna di scuola aveva organizzato una festa nel salotto di casa invitando gli amici.

A quei tempi i giovanotti si presentavano all’ospite con pasticcini, aranciate, cocacola, una pila di dischi e un giradischi a valigetta.

Due balli furoreggiavano: il Rock and Roll, che misteriosamente le ragazze sapevano ballare benissimo (scoprimmo poi che imparavano seguendo programmi tv e facendo prove su prove tra loro), e il ballo del mattone, che non richiedeva tecniche particolari: bastava dondolarsi sempre sullo stesso punto del pavimento spostandosi di qualche centimetro. Il lento (lo ‘slow’, com’era scritto sul disco, sotto il titolo della canzone) risultava il preferito da noi maschietti perché ci permetteva di abbracciare la partner, e per molti quella era l’unica possibilità di farlo.

Ricordo quel tardo pomeriggio mentre la voce carezzevole di Neil Sedaka o di Nico Fidenco uscivano dall’altoparlante del giradischi: una mano furtiva aveva spento la luce del salotto e i visi si erano accostati di più. Quei baci rubati avevano un sapore dolciastro, un po’ farinoso, e quando la luce era tornata noi ragazzi, sbirciando nello specchio del buffet, avevamo scoperto una guancia di colore diverso dall’altra, le labbra pallide e polverose.

Le ragazze facevano crocchio in un angolo ridacchiando e ripassando il  viso con un piumino. Un po’ sgomenti guardavamo il collo della camicia bianca,  che in alcuni casi riportava una sfumatura più scura, e con il fazzoletto del taschino cercavamo di far tornare il colletto al candore di prima: avevamo conosciuto, anche se  indirettamente, la cipria, un cosmetico che sin dagli albori della civiltà, e ancora più negli ultimi secoli, è stato complemento indispensabile alla toilette delle signore, e spesso anche degli uomini.

Il nome ‘cipria’ deriva da Cipro, l’isola in cui questo cosmetico si fabbricava in grande quantità; e non è un caso se la cipria, da sempre elemento utilizzato per evidenziare il proprio fascino, veniva prodotta nel luogo in cui era stato eretto il tempio dedicato a Venere, dea dell’Amore. 

L’uso della cipria conobbe periodi di grande splendore nel Seicento, quando la moda impose che le parrucche di dame e cavalieri fossero abbondantemente cosparse di quella polvere bianca.

Un autorevole quotidiano francese del tempo affermava: ‘Una donna non potrà riscuotere approvazione alcuna ove non abbia una parrucca leggiadramente arricciata e non porti in capo cipria profumata”. Le ciprie del tempo (che la nobiltà acquistava a sacchi) erano profumate all’essenza di gelsomino, di fiori d’arancio, di rosa damascena o di ambretta, e la loro composizione contemplava una polvere finissima di riso o di amido, che all’occorrenza veniva leggermente colorata  con terre macinate. La cipria spolverata sulle parrucche, di colore bianco, veniva usata anche per dare candore alla pelle, nascondere lentiggini, rughe, abbronzatura (l’abbronzatura apparteneva ai contadini che lavoravano i campi), e per far risaltare i nei, confezionati con una speciale qualità di taffetà adesivo. Inizialmente i nei servivano a nascondere i brufoli; qualche dottore li consigliava anche contro il mal di denti, infine divennero una moda civettuola per dare risalto alla pelle che doveva apparire sempre più candida.

Scriveva madame de Sévigné a un’amica a proposito della toeletta mattutina della marchesa di Borbone:“…si arriccia e si incipria i capelli da sola, nel contempo mangia, e con la stessa mano regge alternativamente il piumino e il pane, mangia cipria e si unge i capelli, e il tutto dà luogo a un’ottima colazione e a un’incantevole acconciatura”.

Famose erano le ‘polveri di Cipro’ e la ‘Cipria alla Marescialla’ dal nome della marescialla d’Aumont che, com’era usanza del tempo, si divertiva a fabbricarla.

Produrre in casa le ciprie, e in genere i cosmetici, era per le signore un’attività che occupava buona parte della giornata. In ‘Le preziose ridicole’ Molière, ironizzando su questa passione, fa dire a un suo personaggio: “Quelle sciagurate, con le loro pomate, sembra abbiano intenzione di rovinarmi! Da ogni parte non vedo che chiare d’uovo, latte virginale e mille altre cianfrusaglie che non so cosa siano. Da quando siamo qui hanno consumato il lardo di almeno una dozzina di maiali e con i piedini di montone che adoperano ci sarebbe da sfamare giornalmente quattro servitori…”

Divertente è un’altra descrizione sul comportamento delle cameriere addette alla signora durante la sua toilette mattutina:“… esse gettano energicamente in aria, contro il soffitto, la più fine delle ciprie, che ricade imbiancando -come fa la brina di gennaio sulla terra dura dei campi- le parrucche, le vesti, il pavimento, i mobili e i  visitatori…”

Un altro ‘rituale’, comune a tutte le case della borghesia e della nobiltà del tempo, ha resistito fino a qualche decennio fa nelle nostre campagne, come gesto propiziatorio e di buon auspicio: le giovani mamme, dopo il bagnetto al loro bambino, lanciavano in aria un pugno di borotalco che ricadeva sul piccolo, nella bacinella e tutto intorno, cantando una filastrocca di origine friulana: “Col viso di farina sarai re e sarai regina”.

Il primo duro colpo al commercio delle ciprie si ebbe alla fine del ’700  quando la regina Maria Antonietta, che fu per settimane tra la vita e la morte in conseguenza di un lungo travaglio e un difficile parto, perse i capelli. Il suo parrucchiere, Léonard, creò per lei una nuova acconciatura detta à l’enfant con una parrucca bassa e liscia, e abolì la quotidiana infarinatura di cipria. Fu una rivoluzione, tanto che il giornale ‘Le Cabinet des Modes’ raccomandava alle signore alla moda di non incipriare più la parrucca.

La tendenza, poi, a avvicinarsi sempre più al mondo della natura e agli idilli pastorali, fecero desistere le donne dall’imbellettarsi il viso. Emblematico fu un dipinto presentato al Salon de Paris nel 1797: Amore e Psiche di Gérard. La scena di amori bucolici colpì talmente l’immaginazione da fare tendenza.  Tutte le dame alla moda rigettarono rossetti, ciprie e creme per presentarsi così come natura le aveva create. Ma durò poco. Dopo i primi fervori, l’uso della cipria, pur se in maniera più discreta, riprese vigore, e le polveri di riso profumate riscossero di nuovo grande successo, nonostante la dama che eccedesse nell’uso dei cosmetici venisse considerata ‘poco seria’.

La Casa di Profumo Roger & Gallet per prima si rese conto di come la cipria fosse ritornata a essere elemento indispensabile al maquillage femminile, e studiò contenitori da viaggio, o semplicemente da passeggio, interpellando anche il celebre design René Lalique, così da mettere a disposizione della signora il necessario per togliere il ‘lucido’ dal naso o le ombre scure da sotto gli occhi.

La donna elegante si incipriava il viso con una zampa di lepre o un piumino di cigno e, secondo il tipo di carnagione, colorava le guance con ciprie dai toni tenui.

Vista la richiesta sempre più consistente  e non esisistendo normative, fabbricanti senza scrupoli realizzavano ciprie con elementi dannosi per la cute, come polveri di marmo, manganese e ossido di zinco.

Nel 1897 una legge obbligò gli operatori del settore a produrre ciprie in modo scientifico, senza rischi per le consumatrici: era l’inizio della moderna cosmesi.

Dal secolo scorso decine di importanti Case di Profumo hanno prodotto, per un tempo più o meno limitato, ciprie, spesso profumate con essenze alla moda, permettendo alle clienti di indossare una cipria coordinata con il profumo preferito.

Negli anni 1930 Max Factor, un estetista che operava nel mondo della cinematografia,, stanco del disordine creato dalle ciprie in polvere i cui contenitori tendevano spesso a rovesciarsi, realizzò ciprie compatte di grande successo diffondendole in tutto il mondo. Grazie alle ciprie Max Factor, che in astucci di metallo o in bachelite si tenevano in borsetta e si potevano utilizzare in qualsiasi momento, le signore avevano creato un rituale legato al gesto o all’intenzione di incipriarsi. La signorina ‘bene educata’ che desiderava allontanarsi da una situazione imbarazzante senza offendere alcuno toglieva dalla borsetta il portacipria, e facendolo intravedere mormorava “Torno subito”. 

Allontanarsi per rinfrescare il trucco era una giustificazione accettata. Ancora: l’incipriarsi poteva venire interpretato come un gesto civettuolo per farsi notare, oppure un modo per manifestare la propria indifferenza concentrandosi su una operazione tipicamente femminile.

Elena Camino nel suo libro ‘La Vera Signora’ (Longanesi, 1955) afferma: “Ogni gentlemen inglese non manca mai, scortando una signora, d’informarsi a un certo momento se ella desideri ‘powder her nose’ (incipriarsi il naso, ndr). La signora si sentirà molto a suo agio con un gentiluomo di tal fatta”. ‘Incipriarsi il naso’ per la signora significava, sino a qualche decennio fa, recarsi alla toilette.

Dalla fine degli anni 1950 le ciprie in polvere hanno conosciuto un lento e inarrestabile declino, sostituite con prodotti più attuali, più resistenti durante  tutto l’arco della giornata, e in grado di mascherare, sottolineare o attenuare con maggiore efficacia  i lineamenti del volto.

Il maquillage si è fatto più sottilmente complesso con una varietà infinita di prodotti igienicamente sicuri, ben lontani dal semplice ‘trucco’ casalingo delle quindicenni di tanti anni fa, realizzato alla bell’e meglio con fondotinta e cipria passata e ripassata sulla pelle e sulle labbra per mettere in risalto occhi bistrati, intensi, dalle lunghe ciglia nere.

Pochi sanno che l’Italia oggi è all’avanguardia  nella fabbricazione di cosmetici, e che ben il 70 per cento della produzione mondiale viene prodotta in Lombardia, dove operano circa cinquecento aziende specializzate nella creazione di creme, ciprie, mascara, matite, ombretti, rossi per labbra, e  tutto quanto è relativo al make-up. Prodotti di altissima qualità, creati in Italia per conto dei marchi più prestigiosi della Profumeria attuale, e poi distribuiti ovunque nel mondo.

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